“Sono andato dall’osteopata per il dolore alla spalla destra e mi ha trattato il fegato”, “l’osteopata ha detto che il mal di schiena dipende dal mio rene sinistro”, “l’osteopata mi ha messo le mani sulla testa e il mio acufene si è ridotto”, “il click alla mandibola è legato ad uno squilibrio cranico”.
Queste sono frasi comuni che si sentono dire ad amici e parenti, quando si rivolgono all’osteopata ma è bene chiarire alcuni punti che da professionista sanitario mi coinvolgono direttamente. Come possiamo spiegare queste affermazioni in modo razionale?
- Le strutture viscerali hanno legamenti, punti di ancoraggio e rapporti anatomici con il sistema muscolo-scheletrico. Inoltre alcuni visceri presentano connessioni nervose e vascolari con altre strutture sia viscerali (connessione viscero-viscerale) che muscoloscheletriche (connessione viscero-somatica e somato-viscerale). Per tali motivi, una disfunzione vertebrale può essere una concausa di un’alterata funzione gastrica o una cistite può essere in relazione con un dolore all’anca. Inoltre le connessioni seguono le catene miofasciali e le catene lesionali. Esiste poi una relazione neurologica diretta tra rachide (vertebre) e visceri, legata al sistema nervoso autonomo ortosimpatico.
- Determinate tecniche possono avere un effetto sul sistema nervoso autonomo o vegetativo e sulla componente ormonale, quindi possono influire positivamente sulla digestione, sul sonno, sul bilancio energetico, sul metabolismo e sullo stato di benessere generale.
- Gli organi addominali e toracici devono essere elastici e mobili. Sono costantemente mobilizzati dal diaframma e dalla meccanica ventilatoria e quando la colonna vertebrale e l’apparato locomotore si muovono, gli organi devono seguire il movimento. Un polmone rimasto rigido da esiti di polmonite o un intestino molto congestionato, sono strutture poco mobili che alterano gli schemi motori connessi con la ventilazione e la mobilità del rachide. Si possono creare delle tensioni muscolari sui muscoli vicini e sulle catene miofasciali, che poi sfociano in sintomi di vario tipo, anche a distanza.
- La forma della testa e l’atteggiamento statico e dinamico delle ossa del cranio può condizionare la postura e alcune funzioni ad essa connesse. Ne sono esempi le funzioni dell’apparato stomatognatico o la mobilità del rachide e del sacro.
- L’osteopatia e nessuna tecnica manuale può trattare un organo o un tessuto realmente patologico. Non si può trattare manualmente la patologia. Un fegato che “funziona male” a causa di un’epatite continuerà ad avere una funzione alterata a causa della patologia. Stesso vale per un rene che presenta una ptosi ma la sua vicinanza con lo psoas e il quadrato dei lombi, potrebbe metterlo in relazione con una lombalgia. Un’esofagite da reflusso può irritare la fascia viscerale del collo e generare dolore cervicale. Le tecniche osteopatiche possono intervenire sulla mobilità di quell’ organo in relazione alle strutture muscolari, connettivali, nervose e vascolari che lo circondano e alle catene fasciali con cui quell’organo è connesso. Secondariamente la riduzione delle tensioni fasciali a quel livello potrà migliorare la vascolarizzazione e lo stato di “salute” di quel tessuto e di quell’organo, riducendo gli effetti negativi della congestione dei fluidi. In parte è vero il contrario, nel senso che un organo continuamente poco vascolarizzato, congestionato e ipomobile può sviluppare sofferenza tissutale che alla lunga può contribuire all’insorgenza di una “patologia”.
- Anche nell’ambito muscoloscheletrico la terapia manuale ha dei limiti. Quando un’articolazione dolente presenta segni clinici, magari diagnosticati di degenerazione anatomica (artrosi, lesioni condrali, lesioni legamentose) l’intervento manuale dell’osteopata-fisioterapista non può essere totalmente risolutivo. Se si è instaurato un danno anatomico reale o una metaplasia del tessuto (calcificazioni, fibrosi), l’obiettivo della terapia manuale non può essere il recupero totale della capacità funzionale e la scomparsa dei sintomi perché la struttura anatomica è compromessa. In questi casi l’osteopata-fisioterapista potrà riequilibrare le strutture miofasciali, lavorare sulle catene muscolari, ridurre la congestione dei fluidi e insegnare al paziente degli esercizi semplici per il mantenimento a domicilio. Faccio l’esempio di un ginocchio artrosico con degenerazione meniscale: la funzionalità alterata e il dolore dipenderà da questi due aspetti che nessuna terapia manuale può modificare. Potrebbero esserci però delle condizioni che hanno facilitato l’innescarsi di tale maccanismo nel tempo, come ad esempio, gli esiti di una distorsione di caviglia avvenuta in età evolutiva e mai recuperata. Sarà possibile intervenire anche su questi aspetti ma sempre in una logica di un intervento parziale.
Nei casi in cui un sintomo avvertito dal paziente ha una correlazione con la disfunzione di una struttura anatomica o di un tessuto, la terapia manuale può dare risultati terapeutici importanti e dovrebbe essere un’alternativa da associare sempre alla terapia farmacologica prescritta dal medico. È in questo passaggio che si può fare la differenza.